Belfast – Irlanda del Nord

Con così tanta gente addormentata, Belfast sembra una camera con la luce spenta. La città palpita, si muove su e giù, a ritmo di musica, come se respirasse. Le strade addormentate sono pervase da un senso di libertà, le vetrine dei negozi e i marciapiedi illuminati di South Belfast sono deserti e silenziosi. Vicino a Hope Street un bevitore solitario avanza barcollando. In una casetta a Moyard Street una ragazza mora perlustra la strada in ciabatte alla ricerca del suo gatto. Ogni angolo è lo scenario di un piccolo evento: in Cedar Avenue, Arizona Street, Sixth Street ed Electric Street gli agenti del RUC controllano non si sa che, fermano le poche macchine che passano, esaminano i documenti e chiedono conferma dei dati via radio. Cedar Avenue, passo. Sotto i lampioni, su ogni muro, spiccano le scritte IRA, INLA, UVF, UFF, OAG. E’ una specie di diario: in una calligrafia sgangherata i muri, crepati e sbiaditi, raccontano le vicende e gli odi della città. Qui a terre a guerre, sembrano dire. Manifesti e volantini sventolano in mille direzioni diverse annunciando concerti, incontri religiosi, rappresentazioni teatrali, svendite e altri incontri religiosi. In Brunswick Street una lacera locandina arancione invita a una serata nella Cattedrale discoteca viaggiante del Reverendo Ramsden. E’ gradito l’abito da sera. Ingresso vietato ai cattolici. Qua e là, accanto a una finestra o in cima a una torretta, sventola una bandiera: migliaia di stendardi, ma solo cinque colori: verde, bianco, oro, rosso e blu. I due tricolori della discordia. Sparsi in tutta la città, sui marciapiedi, davanti ai portoni o tra le aste delle inferriate, ci sono mazzi di fiori. In ogni angolo di strada, avvolti in carta trasparente, piccoli giardini artificiali, fiori ancora freschi dai colori vivaci, oppure avvizziti e spenti. Ogni passeggiata in città è cadenzata dal susseguirsi di quei mazzi posati dagli abitanti di Belfast là dove sono stati uccisi i loro concittadini. Quando i petali sono ormai secchi, ci si domanda chi sia morto in quel punto e non si riesce mai a ricordarlo. E’ solo in piena notte, dall’alto, che la città sembra un insieme organico, un tutto unico. Quando i suoi abitanti dormono, il disordine diurno si ricompone e, per lo meno, geograficamente, la città appare un’entità compatta. Potrete scorgere allora gli anelli di nero basalto che l’abbracciano, i monti, le colline e le distese pianeggianti e vedere nella grande baia ai piedi della metropoli il mare scuro che ne irrora il cuore. Vi accorgerete che è, letteralmente, una discarica, un terrapieno, uno scosceso arenile. Il suo nucleo si erge su una piana che due secoli fa non esisteva. Cumuli di terra furono scaricati in mare e lì sopra sorse Belfast. I suoi abitanti dicono che sia emersa dalle acque come per miracolo, ma la realtà è che quando fu scagliata in mare, non affondò. Belfast ha più colli di Roma. E’ un’Atlantide che affiora dal mare. E da qualsiasi punto la osserviate, in qualsiasi direzione guardiate, le strade luccicano come pietre preziose, come collane di stelle. C’è chi dice che sia una città di 279.000 abitanti, 130.000 uomini e 149.000 donne, ammassati in 11.489 ettari. C’è chi dice, invece, che vi abitino mezzo milione di anime, considerando anche la periferia, Greter Belfast. Due cattedrali, banchine di scarico, un porto e un gran su e giù di strade: una città su un’accidentata lingua di terra a livello del mare. Qualunque siano le sue dimensioni, è un luogo magico. Questa notte le strade odorano di vecchio e di fatica. L’aria gronda di rimpianti e di desideri. Il tempo non si ferma mai. La città sente il peso degli anni. Per quanto incantata e sfavillante, Belfast parla chiaro. Le bandiere, le scritte sui muri e i fiori sui marciapiedi parlano chiaro. E’ una città in cui la gente è pronta ad uccidere e a morire per pochi brandelli di stoffa colorata. Questo si aspettano i due popoli che l’abitano, divisi da quattro, o otto, secoli di differenze religiose e civili. Un’assurdità, un rompicapo che avvelena il sangue, una spirale senza fine che impedisce ogni cambiamento. A notte fonda, però, la fresca brezza che attraversa Belfast sussurra che l’odio è come Dio: non lo potete vedere, ma se combattete in suo nome e credete ciecamente in lui, riscalderà le vostre notti. Se volgete lo sguardo sulla città (i vostri occhi devono, come i nostri, essere democratici osservatori e imparziali testimoni della realtà), vedere chiaramente che c’è davvero qualcosa che divide i suoi abitanti: qualcuno questo qualcosa lo chiama religione, altri politica ma è solo il denaro il vero motivo di differenza e discordia. Ci potete scommettere, e non perderete il vostro denaro. Vedrete strade immerse nel verde e strade soffocate dal cemento: immaginatevi vite immerse nel verde e vite soffocate dal cemento. Nei quartieri ricchi e nei sobborghi senza un centimetro quadrato di erba, i vostri occhi scorgeranno la verità. Le cicatrici e i segni della violenza non sono visibili ovunque. Molti se la passano bene, molti prosperano, ma molti altri soffocano. Belfast è una città a cui è stato strappato il cuore. Una città di cantieri navali, fabbriche del lino e corderie in cui oggi non costruiscono più navi, non si produce più sartiame e non si lavora più il lino. Una città non può sopravvivere se non sa dove sbattere la testa. Ma di notte, in mille modi diversi, è la prova dell’esistenza di Dio. Sembra il centro dell’universo. E’ spesso sui teleschermi, ma pochi turisti la visitano. Hope, Chapel, Chichester e Chief Street sono attraversate dalle tracce viventi delle migliaia di morti che hanno impregnato i marciapiedi, i mattoni, le porte e i giardini di Belfast. Gli abitanti di questa città vivono in un mondo andato in frantumi, ma ancora affascinante. Dovreste fermarvi una notte in Cable Street, e mentre il vento vi sferza il viso, ascoltare immobili, in estasi, la voce di un passato sconosciuto. Allora, non riuscireste più a staccarvi questa città di dosso. In centro e nei quartieri popolari, le strade, come luci nella casa dei vicini, raccontano di gesti, desideri, sofferenze e ricordi. L’intera superficie della città pullula di vita. Il terreno è reso fertile dalle ossa dei suoi innumerevoli morti. La città è uno scrigno di storie e di racconti presenti, passati e futuri. E’ un romanzo. La città è un semplice conglomerato di persone, e al contempo complesso distillato geografico ed emotivo di una nazione. Non è la dimensione di un luogo che ne fa una città, né la velocità dei suoi abitanti o la foggia dei loro abiti, il frastuono delle loro voci. Ma soprattutto la città è un crocevia di storie. Gli uomini e le donne che vi abitano sono racconti affascinanti, infinitamente complessi. Anche la persona più noiosa e ordinaria è un racconto che non teme il confronto con la trama più bella e più ricca di Tolstoj. E’ impossibile rendere la grandezza e l’incanto di un’ora nella giornata di un qualunque abitante di Belfast. Nelle città le storie si incrociano e si intersecano, i racconti si incontrano, si scontrano, si fondono e si trasfondono in una Babele di narrazioni. E alla fine, dopo generazioni e generazioni, e centinaia di migliaia di persone, la città stessa comincia ad assorbire quei racconti come una spugna, come una carta assorbente. Il passato e il presente vi sono iscritti, a inconsapevole e integrale testimonianza. Talvolta, a notte fonda, quando quasi tutti dormono come in questo momento, la città sembra fermarsi, tirare un sospiro ed effondere quei racconti, che evaporano come calore assorbito dalla terra d’estate. Se in un momento simile vi trovate in mezzo alla strada e per qualche incredibile istante non passa una macchina e il rumore del traffico si affievolisce, e voi vi guardate intorno contemplando i marciapiedi, i lampioni e le finestre e ascoltate con attenzione, potrete sentire i sussurri dei fantasmi di quelle storie. C’è qualcosa di magico in istanti simili, qualcosa di prodigioso e impalpabile che svanisce in fretta. Vi sentirete in presenza di qualcosa di più grande di voi. Girando un poco lo sguardo lungo il perimetro del vostro campo visivo, vedrete strade ed edifici in cui palpitano centinaia di migliaia, un milione, dieci milioni di storie oscure, tanto intense e intricate quanto la vostra. Non c’è nulla di più divino. E i sonnecchianti mormorii di mezzo milione di persone si uniranno in una musica sublime. Se riuscirete a sentirla, vi toccherà il cuore. Una città deserta alle quattro del mattino può raccontare tutto quanto si può imparare su questa terra. Notti simili e simili città sono il centro, il fulcro, il cardine attorno al quale ruota la nostra vita. Le città, immerse nel sonno come i loro abitanti, attendono lo sviluppo degli eventi e la ripresa delle storie sospese, che presto ripartiranno e si rimetteranno in moto. E mentre gli angoli dell’oscurità cominciano ad arricciarsi, la città addormentata si muove e si agita nel sonno. Presto si sveglierà. In questa città, come in ogni altra, ogni mattina la gente si sveglia e indossa la corazza per affrontare la lotta quotidiana. In tutte le piccole case di questa piccola città, uomini e donne si affacciano alla finestra a guardare Belfast all’alba, preparandosi alla battaglia che si svolgerà.

tratto da Mcliam Wilson, Eureka Street

Guerra a Belfast

L’estate irlandese non sembra poi molto estate.

Verso l’imbrunire avevo la strana impressione di trovarmi in una trincea della Grande Guerra. In uno di quei rari momenti di tregua, corrosi dall’incertezza. Belfast era diventata una città al fronte.

Ironico, pensavo, come la città venga venduta ai turisti. La città del Titanic veniva chiamata, come se secoli di lotta non fossero mai esistiti. Lì, davanti a me, la vera Belfast, quella che si rivela solo a pochi prediletti.

Mi trovavo a quel bivio senza sapere davvero cosa aspettarmi dalla parata orangista. Tra un misto di curiosità e paura saltellavo con lo sguardo di volto in volto per decifrare i pensieri dei presenti. Indescrivibile la trepidante attesa. I giornalisti più lungimiranti occupavano i posti migliori per la solita routine di violenza e scontri. Era il mio primo giorno di scuola.

Decine di camionette blindate della polizia scaricavano agenti in tuta antisommossa. L’effetto era quello di trovarsi in qualche avvicente film holliwoodiano.

A coronare il quadro, crocchi di adolescenti e ragazzi che sfidano, per adesso solo con occhiate rapaci, la polizia.

Un epifania. La pace, tanto ostentata dalla politica, poteva essere infranta per qualche ora e ricostituita nell’indifferenza generale. Lì, su quel campo di battaglia, notai per la prima volta i veri umori del popolo nordirlandese. Un mantice che soffia su brace apparentemente spenta.

La mia disorientata attenzione venne attirata dalle persone situate sui tetti piatti dei negozi, immediatamente affacciati sulla strada. Pensai, ingenuamente, fossero manifestanti. Facevano, in realtà, parte del siparietto della politica, che cercava in tutti i modi di non perdere la faccia.

Mi tornò a mente l’immagine della guerra, incalzata dall’avvicinarsi di flauti con melodie inintelligibili. Non parevano comunque musiche annunciatrici di sventure.

L’atmosfera cambia. Si smette di parlare l’un con l’altro. Mi sale un brivido per la schiena. Dentro me la presuntuosa sensazione di vivere la storia.

Le fazioni consolidano le posizioni. Da una parte i repubblicani irlandesi separati dalla polizia solo da qualche metro. Qualche ragazzetto spezza lo statuus quo avvicinandosi pericolosamente a quelle macchine di repressione. Si cerca di mantenere la calma più a lungo possibile, forse per coglierne meglio il trapasso.

Nel frattempo i flauti degli orangisti si fanno comprensibili ai più. “Suonano la sash, i bastardi” tuonò un vecchietto che si teneva in disparte; forse ansioso di protestare, ma troppo vecchio per farlo.

Stavo letteralmente fremendo, e la mia eccitazione salì ancora di più riconoscendo tra gli altri, il giornalista della BBC che tante volte avevo seguito.

A sorpresa comparì ai lati del bivio un terzo ospite inatteso. Un fiume di lealisti, avvisati della protesta, si riversano per sostenere la parata e difenderla eventualmente a son di pugni.

Solo ora mi rendo conto della presenza tra i repubblicani di facce conosciute come Gerry Kelly, parlamentare dello Sinn Fein, storico partito irlandese.

All’inizio della breve discesa spuntano pian piano i primi orangisti. In poco tempo la folla accoglie la parata musicale con pietre e bottiglie di ogni tipo. Un nugolo di oggetti da far impallidire i più coraggiosi. Diversi orangisti vengono colpiti. Un uomo sanguina vistosamente. Non c’è pietà che regga. La parata avanza e la musica non cessa. E’ una gara di orgoglio. La polizia preme sulla folla. I lealisti sul lato opposto si limitano a gridare slogan ingiuriosi contro i repubblicani. Riesco perfino a superare le difficoltà dell’accento di Belfast per capirli. I fotografi, in preda ad un cinismo antico, corrono per catturare la notizia. Io vengo colto da una paura mai provata. Poche scaramucce contro la polizia concludono la parata. In pochi minuti tutto sembrava finito.

Tutti tornano a casa, paradossalmente in ordine, come appena usciti dallo stadio.

Bilancio della giornata: “solo” qualche ferito.

Le violenze non si limitarono al giorno della parata. Per tutta la settimana si susseguirono i cosiddetti “riots”, rivolte urbane con incendi d’auto.

Le solite, quotidiane quattro chiacchiere al pub fugarono i miei dubbi.

L’accordo del Venerdì Santo aveva dato, per la prima volta, una tangibile nota di normalità ad un popolo martoriato da decenni di guerra civile. All’apparenza erano stati abbattuti muri secolari tra le comunità unioniste e quelle nazionaliste, sotto lo scettico sguardo del governo britannico negli anni di Tony Blair.

Quel giorno di luglio, undici anni dopo lo storico accordo, quell’immagine idilliaca si era lentamente incrinata.

Avevo visto bene. Esisteva una parte d’Irlanda che ancora lottava per la riunificazione e i diritti civili. Profondamente delusa dal processo di pace, aveva messo le basi per i recenti successi della nuova IRA.

I recenti attacchi in marzo a Massereene e Craigavon hanno dimostrato che RIRA e CIRA non sono semplicemente slogan nostalgici. Nel giro di quarantotto ore sono riusciti a freddare due soldati della corona ed un poliziotto.

Un momento di grave imbarazzo per la leadership dello Sinn Fein, costretto a sconfessare un passato scomodo fatto di bombe e attentati proprio come quelli dei nuovi gruppi paramilitari.

Un risultato eclatante che ha riportato l’IRA, o meglio la nuova IRA, alla ribalta internazionale.

“Sono solo traditori dell’isola d’Irlanda”, queste le parole all’indomani degli attacchi del numero due dello Sinn Fein.

Perfino gli omicidi settari non si sono placati. Ed è forse l’aspetto che più sconvolge. Lo scorso maggio, un quarantanovenne è stato picchiato a morte da una gang di lealisti. Un duro colpo per la società civile nordirlandese che si è vista privata di un padre di famiglia, colpevole solo di essere cattolico.

Il quadro non è dei più ottimisti.

Ma d’altronde lo stesso Gerry Adams, in veste di massimo artefice del processo di pace ammise “ Ho scoperto che costruire la pace è molto più difficile che fare la guerra”.Nulla di più vero. Le sei contee del Nord hanno ancora molta strada da fare.